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S come Silenzio

 

In questa lettera per l’anno nuovo, la teorica culturale Maddalena Fragnito supplica i “suoi cari” di rompere il silenzio che ha definito il 2024, “Per sentirci di nuovo, e farci sentire ancora”. Il testo è stato pubblicato in originale su effimera.org.

Di tanto in tanto, il linguaggio muore.
Sta morendo ora.
Chi è vivo per parlarne?
– Fady Joudah, 2024 1

Ho aspettato parecchio prima di scrivere questa lettera, che oggi invio alle persone a me più care, come augurio per un anno di liberazione collettiva. Un anno fa era ‘troppo presto’ – così si diceva – oggi è troppo tardi. Sia per denunciare il silenzio sull’obliterazione di Gaza, sia per continuare a fare finta che la Palestina possa essere cancellata dalle mappe della nostra memoria. Il nostro silenzio non cancellerà l’anno appena passato: la parola silenzio si pronuncia 2024 e l’anno 2024 si legge come il silenzio di una parte del mondo che ha potuto chiudere gli occhi davanti a un genocidio in diretta streaming. Il più efferato, relativizzato e finanziato, quello che ha ricevuto il più grande sostegno da parte dei governi occidentali e non solo. Quello per cui le condanne di chiunque abbia provato a fermarlo, facendo applicare il diritto internazionale, sono state tra le più severe e ignobili. Mentre chi lo ha violato è stato, e tuttora è, protetto, appoggiato, giustificato.

Di questo, prima o poi, parleremo, quando le parole torneranno a funzionare, quando il silenzio risulterà insostenibile anche per chi è ancora in silenzio. Parleremo di ciò che abbiamo visto e di ciò che non abbiamo voluto dire. Parleremo del fatto che non solo lo spazio del discorso è stato limitato dalle minacce che incombono su ogni nostra parola, ma anche del fatto che non ci sono parole per esprimere ciò che sta accadendo. Come si scrive “orrore” quando la parola non scuote più le viscere? Mentre l’ennesimo neonato muore di freddo nel silenzio di Natale, sua sorella non ha più le gambe, suo fratello è stato fatto a pezzi da un drone fabbricato nelle nostre università, sua madre è morta di parto e suo padre è stato ucciso mesi fa. Non c’è bisogno di aggiungere altro.

Parleremo del fatto che la storia registra anche il silenzio, perché il sostegno dato alla distruzione di un popolo lascerà una traccia indelebile. Parleremo del fatto che eravamo consapevoli, tutte e tutti, di assistere a un evento catastrofico nella storia contemporanea, le cui conseguenze morali, le ricadute politiche e le implicazioni sociali sono e saranno considerevoli. Ma le parole diranno finalmente di come la lingua per descriverlo sembrava in qualche modo morta. Una morte indotta dall’imposizione di un vocabolario e da una grammatica prescrittiva: cosa si può dire e cosa non si può dire è una condanna che arriva dalla repressione di governi complici alla morte per ‘civilizzare’ i profitti, ma anche da noi stessi. Così, la lingua è morta anche per suicidio. Per tutte le cose che non abbiamo detto distogliendo lo sguardo dall’annientamento di un territorio, della sua storia, delle sue abitazioni, delle sue infrastrutture, delle sue strade e dei suoi abitanti. Abbiamo detto dello sterminio più efferato di giornalisti nella storia? E dei camion carichi di sacchi di sabbia per affamare due milioni di persone? Abbiamo detto che a Gaza non è ancora entrata una giornalista internazionale indipendente? E delle ambulanze che saltano per aria come popcorn? Scuole, università, centri culturali: non c’è più nulla. Lo abbiamo detto o abbiamo evitato di dirlo per non graffiare gli aspetti più contraddittori del nostro presente?

Siamo state additate come antisemite, licenziati, ostracizzate, rimossi dai nostri incarichi, private di un reddito; abbiamo perso amicizie e famiglie, siamo stati manganellati, spogliate di un premio o di un bando, esclusi da una conferenza, sottoposte a un’indagine della polizia, talvolta convocati in tribunale. Tuttavia, anche noi abbiamo creato i confini del nostro pensare, abbiamo costruito il silenzio con le nostre stesse lingue, creando linee immaginarie e concrete tra ciò che è buono dire e ciò che è buono non dire. Anche di questo parleremo, della paura che è umana e dell’ignavia. Di come abbiamo incorporato la legge del silenzio mentre lottavamo contro quella del più forte. Una sorveglianza del linguaggio, che è anche sorveglianza del pensiero, alimentata da chi ha denunciato e diffamato chi il silenzio l’ha trasgredito. Chi ha continuato a chiedere un dibattito sulle parole, l’uso della lingua per difendere il linguaggio, dentro-fuori, fuori-dentro, schioccare le labbra per rendere il mondo più comprensibile, per la necessità di una memoria da poter condividere, per non morire di silenzio.

E mentre è chiaro come tale collasso del linguaggio richieda un esame collettivo, il dottor Hussam Abu Safiya si incammina risoluto e di spalle verso la fine, stretto nel suo camice bianco. Il 2024 si chiude con questa immagine che parla tutte le parole che non abbiamo avuto il coraggio di pronunciare insieme. Rimbomba tra i pixel sgranati di questa immagine il silenzio che ha permesso l’ennesimo attacco israeliano a un’infrastruttura sanitaria della Striscia di Gaza, forse l’ultimo ospedale rimasto. Il dottor Hussam Abu Safiya avanza tra le macerie di spalle, come Handala, il bambino stropicciato del disegnatore palestinese Naji Al-Ali, e come Handala si dirige verso un orizzonte che non sappiamo più mettere a fuoco – saranno forse queste macerie le nostre, di macerie? Mentre coltiviamo il silenzio in nome della “moralità”, dell’inevitabilità del ‘danno collaterale’, delle tavole calde apparecchiate, del “diritto all’autodifesa”, del galateo liberale, del perbenismo ‘democratico’ e revisionista. Mentre indugiamo in questo silenzio educato, questo silenzio cancella educatamente ognuna o ognuno di noi, costringendoci all’insignificanza del ‘buon senso’. Di questo, prima o poi, parleremo, quando le parole torneranno a funzionare: di come abbiamo ceduto all’etica della ‘moderazione’ e alla seduzione complice della ‘pacatezza’, di cosa rimane del pensiero nell’implosione del linguaggio, di cosa resta del mondo quando confiniamo la parola.

Il dottor Hussam Abu Safiya che cammina di spalle tra le nostre macerie è l’ultima immagine di un anno che non sarà mai dimenticato. Un anno in cui una popolazione sotto assedio da decenni ha sfidato il mondo con quel coraggio che solo il desiderio di liberazione può attivare, un modo di vita che abbiamo disimparato, ma che possiamo rimparare usando le parole – le nostre parole – anche solo per dire che non è ‘difficile’ né ‘complicato’. Un genocidio è un genocidio, un ecocidio è un genocidio, un’occupazione coloniale è un genocidio, polverizzare le infrastrutture sociali è un genocidio, impedire la riproduzione di un gruppo di persone è un genocidio, silenziare ogni critica con l’accusa di ‘terrorismo’ è un genocidio, l’impunità di cui Israele gode dal ‘48 è un altro genocidio. Anche lo sterminio degli ebrei è stato un genocidio, quello degli Herero, dei Curdi, degli Armeni. Dalla Turtle Island al Ruanda, genocidi si sono consumati senza sosta. Un genocidio non si cancella con un altro genocidio: si pronuncia sempre “genocidio” e si legge urlando l’orrore del potere di morte che l’ingordigia di certi umani ha disposto.

Chi rinuncia al linguaggio, dunque, uccide e muore a sua volta, perché il silenzio è un’arma difficile da maneggiare. Il silenzio non ci protegge, né rende le nostre vite meno precarie e intermittenti. Perciò, queste sono alcune delle parole che pronunceremo nell’anno che viene, per tornare a vivere e per sentirci insieme vive; per tornare a fare le domande che ci riguardano, quelle che interrogano anzitutto le nostre condizioni. Che vita è quella senza linguaggio? Per chi e per cosa lavoriamo nel silenzio? Vale la pena attraversare spazi e tempi in cui è proibito parlare? Tornare a vivere, per noi che possiamo permettercelo, rinunciare al ‘buon senso’ e al privilegio di rimanere in silenzio educato, significa allora pronunciare queste parole ad alta voce come una necessità. Per sentirci di nuovo, e farci sentire ancora.

Fady Joudah, ‘From time to time, language dies. / It is dying now. / Who is alive to speak it?’, bostonreview.net, 2024Fady Joudah, ‘From time to time, language dies. / It is dying now. / Who is alive to speak it?’, bostonreview.net, 2024

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